Quello che sappiamo e quello che crediamo di sapere
Le comunità hanno un ruolo nella diffusione delle conoscenze: dobbiamo essere consapevoli della nostra dipendenza dal sapere altrui.
Le comunità hanno un ruolo nella diffusione delle conoscenze: dobbiamo essere consapevoli della nostra dipendenza dal sapere altrui.
Che cosa significa oggi conoscere davvero qualcosa? I mezzi di comunicazione e gli strumenti di accesso alle conoscenze hanno reso più facile per le persone consultare notizie, informazioni scientifiche, studi di ricerca, risorse educative e molto altro. Ciò ha dato origine a una vasta rete di conoscenze condivise che collega individui e comunità in tutto il mondo. In questo contesto, come possiamo essere sicuri di conoscere davvero qualcosa? Come possiamo affermare con certezza di aver compreso e descritto un dato di realtà, anche quello apparentemente più semplice, quando gran parte della nostra conoscenza individuale – di gran lunga la parte maggiore – si basa su fonti, informazioni e dati che provengono da altri?
È il problema della conoscenza diffusa che il filosofo americano John Hardwig, circa 40 anni fa, ha interpretato alla luce del concetto di “dipendenza epistemica” (J. Hardwig, 1985), espressione da lui coniata per descrivere il meccanismo sociale secondo cui ciascuno di noi non può che riferirsi all’autorità altrui per giustificare gran parte di ciò che afferma di sapere. Dopo aver analizzato logicamente l’idea di autorità intellettuale, specie quella legata alla figura dell’esperto, Hardwig conclude che “o accettiamo che possiamo conoscere qualcosa anche senza essere direttamente in grado di produrre prove a nostro sostegno; oppure dobbiamo riconoscere l’idea che esista un tipo di conoscenza posseduto da una comunità, non da un singolo esperto”.
È una prospettiva squisitamente epistemologica che tocca però l’esperienza di vita di ciascuno di noi. Certo, il numero medio di co-autori nelle pubblicazioni scientifiche è in costante aumento ormai da oltre 5 decenni: è molto citato il fatto che un articolo del 2015 sul calcolo della massa del bosone di Higgs portava la firma di oltre 5000 autori. O ancora, l’estrema complessità dei fenomeni che la politica è chiamata a governare porta al tavolo dei decisori un numero sempre più alto di consulenti ed esperti. Ma se “scendiamo” e ci confrontiamo con la nostra quotidianità, quanti di noi sarebbero in grado di spiegare con esattezza come funziona una cerniera lampo? O di giustificare il meccanismo che fa sì che la bicicletta proceda stabilmente senza sbilanciarsi e cadere?
Gli scienziati cognitivi Steven Sloman e Philip Fernbach sostengono che l’umanità sopravvive malgrado le carenze individuali della mente proprio grazie alla natura intrinsecamente collettiva della conoscenza (S. Sloman e P. Fernbach, 2018). Più che il singolo esperto, è la diffusione reticolare dei dati, delle informazioni e delle conoscenze a costituire la chiave della nostra intelligenza di specie. Tuttavia, una realtà che ha assunto oggi la forma della rete digitale pone il problema della dipendenza epistemica di fronte a sfide ulteriori, non prive di contraddizioni.
L’idea di una conoscenza policentrica e diffusa, unita alla complessità dei fenomeni contemporanei e alla quantità di dati a disposizione della collettività, comporta agli occhi di molti anche l’indebolimento del ruolo stesso dell’esperto: di chi possiamo veramente fidarci quando vogliamo essere certi di qualcosa? I casi di resistenza organizzata alle recenti campagne vaccinali, o la diffusione di teorie stravaganti sulla forma del pianeta e sul funzionamento del sistema solare, rappresentano un attacco diretto alla dipendenza epistemica, senza la quale, pur con tutte le sue zone d’ombra, né la scienza né la società potrebbero funzionare a dovere (Hutson, 2020).
Con la diffusione di forme automatizzate e intelligenti di generazione di conoscenze, come l’intelligenza artificiale e i large language model, il problema della valorizzazione della conoscenza collettiva diventa ancora più urgente. Recenti esperimenti hanno dimostrato che alimentando i modelli generativi di prossima generazione con dati sintetici, prodotti cioè dall’intelligenza artificiale, si crea un circolo vizioso che mangia sé stesso, un processo implosivo le cui implicazioni sono ancora poco chiare (S. Alemohammad et al., 2023). Senza l’immissione di una quantità sufficiente di informazioni fresche a ogni ciclo generativo, il ciclo successivo è destinato a produrre informazioni degeneri per qualità, precisione e diversità. In sostanza, se gli individui dovessero attingere solo all’intelligenza artificiale per ottenere le risposte di cui hanno bisogno, senza contribuire ulteriormente alla comunità delle conoscenze collettive di cui fanno parte, le risposte fornite dall’intelligenza artificiale stessa risulterebbero compromesse proprio a causa della riduzione della fonte di dati originale.
Il problema della dipendenza dalla conoscenza altrui è vivo anche per le organizzazioni e per le comunità che esse abitano. Prendere decisioni informate e orientare scelte strategiche in un mondo complesso e interconnesso richiede la capacità di trarre vantaggio dal patrimonio conoscitivo collettivo dell’azienda o della comunità stessa. Nell’impossibilità di conoscere tutto, riconoscere e alimentare la ricchezza della conoscenza collettiva può aiutare a prendere decisioni ponderate e informate.
Ognuno di noi, nel sopravvalutare quello che sa, costituisce tuttavia un tassello di un vasto ecosistema per cui conoscere davvero qualcosa va oltre l’acquisizione di informazioni individuali, ma coincide con la consapevolezza della nostra dipendenza dalla conoscenza altrui e dell’importanza di contribuire a un sistema collettivo di sapere.
Pubblicato su Weconomy 16 – Una visione completamente diversa