Community economy: perché ai brand conviene puntare sulle comunità

Mettere al centro della propria strategia di business le comunità comporta diversi vantaggi per aziende e organizzazioni. Un approfondimento sulla community economy e sui community brand.

Negli ultimi anni il termine “comunità” sembra aver guadagnato una nuova rilevanza. Dopo decenni in cui – a livello politico, economico e sociale – è stata sottolineata e favorita la centralità dell’individuo, la pandemia di Covid-19 e le grandi trasformazioni che stiamo affrontando – ambientale, digitale, nel mondo del lavoro e della mobilità, per citarne alcune –, hanno posto l’accento sull’importanza di una prospettiva che vada oltre l’individuo e contempli le tante comunità di cui fa parte, per ampliare la scala del nostro agire ed evitare di cercare soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche, come affermava già alcuni anni fa il sociologo Ulrich Beck.  

Anche l’economia e le aziende non sembrano essere esenti da questa “voglia di comunità”, titolo di un libro del 2003 di un altro sociologo, Zygmunt Bauman. Da alcuni anni una nuova tipologia di imprese si è affacciata sul mercato: sono i community brand, cioè quelle organizzazioni o imprese che mettono al centro della propria strategia di business le community e che sono gli attori di quella che viene definita community economy.

In questo articolo capiremo cosa si intende per community economy, quali sono i vantaggi per i brand che mettono le comunità al centro della propria strategia e alcuni esempi virtuosi di community brand.  

Cos’è la community economy 

La community economy è un modello economico che pone al centro le comunità e le interazioni tra i suoi membri. In questo contesto, il valore è generato dalla condivisione di interessi comuni e dalla collaborazione attiva, piuttosto che dalla semplice transazione di beni e servizi.

L’importanza della collaborazione, della partecipazione e della co-progettazione nelle imprese e nell’economia come nuovo paradigma alternativo a una vecchia visione del fare impresa sono concetti di cui si dibatte da tempo. Tra i diversi testi che ne hanno trattato segnaliamo Weconomy. L’economia riparte dal Noi, raccolta di 40 riflessioni di studiosi ed esperti curata dalla Independent design company Logotel e pubblicata da Dalai.

Sempre del 2010 è un altro testo considerato la bibbia della sharing economy, Il consumo collaborativo, nel quale gli autori Rachel Botsman e Roo Rogers analizzano questo nuovo modello favorito dalla trasformazione dei consumi e dal passaggio dall’economia come possesso all’economia come condivisione.

Nel suo libro Community economy, Marta Mainieri individua nella sharing economy – “un modello il cui asset principale non era più il prodotto ma le persone, non più intese come singoli ma come individui inseriti in una comunità che si aggrega e interagisce intorno a una proposta di valore” ­– la premessa della community economy, che definisce come una nuova forma di economia “composta da aziende, gruppi, luoghi che pongono al centro della loro strategia di business la comunità”.

Per completare questa breve panoramica – certamente non esaustiva – su cosa sia la community economy, aggiungiamo anche una definizione utilizzata da Symbola – Fondazione per le qualità italiane, che nei suoi report periodici “Coesione è competizione” analizza la crescente importanza delle “imprese coesive”, cioè quelle organizzazioni che mettono le comunità al centro del proprio modello di business.  

Le caratteristiche principali della community economy

Nel nuovo modello di community economy la collaborazione è più importante della competizione, il valore non è più generato esclusivamente dall’azienda, ma anche dalla comunità stessa, e la sostenibilità e la scalabilità sono essenziali per il successo a lungo termine.

La community economy sovverte alcune logiche alla base dell’economia tradizionale, come si può cogliere in alcuni aspetti:  

  • aggregazione della domanda: anziché creare prodotti e poi cercare i clienti, le aziende community-driven ascoltano le esigenze della comunità – spesso aggregate attorno a prototipi e non a prodotti/servizi finiti – e sviluppano offerte che rispondono a tali bisogni;
  • co-progettazione: le organizzazioni che operano nella community economy lavorano insieme ai membri della comunità per sviluppare e migliorare i servizi, in un’ottica non più lineare ma circolare;
  • gestione abilitante: la co-progettazione comporta per le organizzazioni la necessità di adottare modelli gestionali che affidano ruoli e responsabilità ai membri della comunità, rendendo i confini tra interno ed esterno dell’azienda fluidi e permeabili;
  • responsabilità morale reciproca: i membri della comunità, investiti di un ruolo attivo e partecipativo dai brand, condividono un senso di appartenenza e responsabilità l’uno verso l’altro.

I vantaggi dei community brand

Estendere il perimetro dell’impresa fuori dalle proprie mura”, come spiega il direttore generale di Symbola Domenico Sturabotti nel suo intervento sul sedicesimo numero di Weconomy, pubblicazione open-source di Logotel, risponde innanzitutto a un diverso “spirito del tempo”.

“Le crisi in corso rendono sempre più instabile il contesto nel quale operano le imprese. Il modello che permetteva di competere sul mercato prescindendo da relazioni autentiche con le organizzazioni e le persone che a vario titolo entrano in contatto con l’impresa non è più adatto ad affrontare cambiamenti così repentini – scrive Sturabotti -. Il mondo è più connesso di quello che pensavamo e l’impresa si trova immersa in una rete di soggetti interdipendenti – quando lo richiederà il contesto – a cui dare e da cui ricevere input per lo sviluppo e la crescita. È in questo scenario che alimentare la creazione di comunità diventa essenziale”.

Al di là dello Zeitgeist, i brand che adottano un approccio basato sulla community ne ricavano, concretamente, diversi vantaggi in termini di:

Fidelizzazione: i brand che investono sulle proprie community possono beneficiare di un legame più forte e autentico con i consumatori. Questo può tradursi in maggiore fiducia e lealtà del cliente e, infine, in un vantaggio competitivo sostenibile.

Engagement: per un’azienda o un’organizzazione aumentare il livello di coinvolgimento, dei propri dipendenti così come dei suoi clienti, è fondamentale ai fini della sostenibilità economica e sociale e della competitività sul lungo periodo. Come spiega Falon Fatemi nell’articolo The rise of the community economy pubblicato su Forbes, i social media hanno abituato i brand a credere che il successo si misuri con il numero di views. In realtà, però, “ciò che conta è il livello di engagement dei follower, e che questi siano abbastanza coinvolti da essere considerati una community. Gli engaged follower producono benefici di gran lunga superiori a quelli dei semplici spettatori, compreso il potenziale di co-marketing e di crescita esponenziale”.

Adoption: le dinamiche di community permettono di facilitare e velocizzare l’adoption di nuove funzionalità, nuovi tool o nuovi comportamenti, grazie al continuo confronto e supporto da parte degli altri membri della community.

Innovazione: le community nate e animate all’interno di brand e organizzazioni sono dei laboratori per l’innovazione. Le idee che emergono direttamente dai membri più impegnati e i loro feedback costituiscono un materiale prezioso per lo sviluppo di nuovi prodotti e/o servizi e per il miglioramento continuo di quelli esistenti.   

Contenimento delle spese: costruire e mantenere “viva” una brand community non è economico. Richard Millington, fondatore della community consultancy FeverBee, parla di un budget annuale che, per grossi brand, può oscillare tra 500 mila e 10 milioni di dollari. Ma lo stesso Millington ha reso noti i risultati di un “esperimento” condotto attraverso la sua società. Come riporta nell’articolo The real value of your brand community sull’Harvard Business Review, ha convinto uno dei suoi clienti – grandi brand tra cui Apple, Facebook, Google, SAP – a nascondere la community per quattro mesi, gestendo attraverso il servizio clienti le richieste che normalmente sarebbero state gestite direttamente dalla community. Alla fine dei quattro mesi, si è scoperto che rispondere a una domanda attraverso la community era il 72% più economico rispetto al servizio di assistenza. Non solo: nei quattro mesi in cui la community è scomparsa, i punteggi di soddisfazione dei clienti sono crollati a uno dei livelli più bassi mai registrati.

Performance: nell’edizione 2023 del già citato report “Coesione è competizione”, la Fondazione Symbola riporta alcuni dati che rivelano come le imprese coesive abbiano registrato performance migliori delle imprese “tradizionali”, anche in contesti difficoltosi come quello della pandemia. Nel biennio 2021-2022, le realtà coesive hanno infatti registrato una crescita media di fatturato del 38%, superiore alla media del mercato pari al 29%.

Valori intangibili: al di là dei valori tangibili per il business, le community producono anche vantaggi intangibili, come sottolineano Jeffrey Bussgang e Jono Bacon in un articolo apparso sull’Harvard Business Review: “Gli esseri umani sono fondamentalmente animali sociali. L’economia comportamentale e la ricerca psicologica ci hanno insegnato che fondamentalmente desideriamo un senso di connessione, di appartenenza, di scopo e di significato, soprattutto quando svolgiamo il nostro lavoro”, scrivono i due autori. “Le comunità offrono questi vantaggi, creando un senso di responsabilità condivisa e un insieme di valori, pur preservando l’autonomia individuale”.

Esempi virtuosi di community brand

Diversi brand hanno già abbracciato con successo la community economy. Nel suo libro The business of belonging, in cui David Spinks afferma che siamo nell’era delle community, l’autore cita come esempi pionieristici Apple e Salesforce. I già citati Bacon e Bussgang aggiungono come l’annuale conferenza aziendale di Salesforce, Dreamforce, attiri ogni volta 200.000 accoliti a San Francisco e rappresenti “una mecca per l’ecosistema dell’azienda per riunirsi, costruire relazioni e far progredire l’agenda aziendale”.

Figma e Notion, community-first

Nel mondo del design, un caso virtuoso è quello di Figma, software di collaborazione che con il suo approccio community-driven ha scardinato il monopolio della suite Adobe Creative (anche se poi il successo di Figma l’ha portata ad essere acquistata dalla stessa Adobe). Rilasciato inizialmente nel 2014 come versione Beta, ha di fatto visto nascere prima la comunità dei potenziali utilizzatori, e solo successivamente la versione ufficiale del prodotto.

Un caso simile riguarda un altro software di nuova generazione, Notion. In entrambi i casi, si è assistito a un ribaltamento delle dinamiche di produzione e di diffusione: sono le persone che partecipano alle community che, attraverso lo scambio di idee, suggerimenti, esperienze e contributi, si impegnano affinché i due software rispondano sempre in maniera ottimale alle loro esigenze.

Un altro esempio riguarda il famoso brand di “mattoncini” LEGO, conosciuto e amato da bambini (e non solo) di tutto il mondo. Attraverso il programma LEGO Ideas, il brand danese invita gli appassionati a proporre e votare nuovi set LEGO, mettendo poi in produzione e in commercio quelli più votati.

Casi virtuosi italiani: WeRoad e Cinelli

In Italia un caso virtuoso è rappresentato da WeRoad, la community di viaggiatori lanciata da OneDay Group e che connette persone, storie e culture da tutto il mondo. Betty Pagnin, People & Culture director del gruppo, sul sedicesimo numero di Weconomy ha spiegato che “l’idea di avere un impatto significativo nella vita delle persone delle nostre community è profondamente radicata nel DNA di OneDay Group, e guida le nostre scelte e le nostre iniziative quotidiane. È il naturale obiettivo delle nostre company: se c’è una cosa che sappiamo fare bene, infatti, è far nascere community coinvolte ed entusiaste, offrendo loro contenuti, prodotti ed esperienze pensate sui bisogni di uno specifico target di età”.

Un altro caso di successo di community brand in Italia è Cinelli, storico produttore di biciclette. Nella sua evoluzione, il marchio ha promosso un coinvolgimento attivo dei propri clienti che danno un contributo attivo in termini sia di feedback sia di identificazione col brand. In questa maniera lo aiutano a co-creare prodotti perfettamente in sintonia con le proprie esigenze e agiscono anche come brand ambassador in grado di veicolare lo stile Cinelli. Il rapporto con la propria community viene costantemente rafforzato attraverso numerose iniziative ed eventi sia digitali sia dal vivo, come i test bike settimanali per far provare le proprie biciclette e ricevere feedback e opinioni sull’esperienza di guida.

Un caso recente: la food hall Saluhall di Ikea

A livello internazionale, oltre ai brand già citati, un marchio che punta sulla community è Ikea, il colosso svedese dell’arredamento. Ad aprile 2024 il gruppo Ingka, la holding del marchio, ha aperto a San Francisco un’innovativa food hall chiamata Saluhall che punta a rivitalizzare la scena gastronomica del quartiere di Market Street e a favorire i legami con la comunità.  

Il direttore generale di Ingka Centres, Cindy Andersen, ha rivelato che la decisione è nata anche da un insight del rapporto interno Life in Communities, che ha rivelato come il cuore pulsante della comunità risieda spesso nell’esperienza condivisa del cibo. Da qui l’idea di creare uno spazio “in cui le persone si connettono, le imprese prosperano e lo spirito della città risplende”.

Conclusioni

Porre al centro della propria strategia di business la creazione, l’animazione, l’ascolto, il coinvolgimento e la cura di community (che siano di clienti/consumatori o di dipendenti, come le digital business community), si sta rivelando per molti brand un vantaggio competitivo. Investire nelle community non può essere solo una strategia di marketing, per non rischiare di essere etichettato come community-washing. Al contrario, deve essere un cambiamento paradigmatico che richiede un impegno autentico e a lungo termine. I brand che sapranno ascoltare, coinvolgere e crescere insieme alle loro comunità saranno quelli che prospereranno nell’economia del futuro.