Basta one-for-all. Un nuovo scambio di valore per le organizzazioni
Perché l’attuale modello di scambio di valore delle organizzazioni non funziona e su quali basi costruirne uno più efficace.
Perché l’attuale modello di scambio di valore delle organizzazioni non funziona e su quali basi costruirne uno più efficace.
La nostra organizzazione è diventata, un po’ come tutte le altre, un UFO: è il nome con cui, nel 15° numero di Weconomy, il progetto open-source di Logotel sull’economia collaborativa, abbiamo chiamato le organizzazioni ibride. Per sopravvivere e prosperare in contesti e scenari volatili, imprevedibili, caotici, non governabili, l’organizzazione UFO avrà bisogno di un qualcosa – anzi qualcuno – di speciale. E, per questo, una situazione già complessa diventa anche complicata.
Le organizzazioni non hanno più bisogno solo di qualcuno bravo o dedito alla causa, ma devono poter far germogliare community di scambio di valore in cui un insieme eterogeneo di molti-uni abbia modo di esprimere le proprie unicità – compatibilmente con i valori dell’organizzazione – all’interno di un contesto che per ognuno di loro sia abilitante e motivante. Trovare queste tipologie di persone, farle emergere e tenerle, farle crescere, non demotivarle, metterle in relazione tra loro, soprattutto quando l’offerta della concorrenza si gioca su altre monete di scambio rispetto alle nostre e che – per queste persone –, risultano in quel momento più appetibili. Un compito difficile che diventa addirittura impossibile se non siamo disposti ridiscutere radicalmente il modello alla base dello scambio di valore messo in campo, che si fonda su quello che siamo disposti a dare e quello che avrebbe davvero senso aspettarsi.
Ogni legame esiste grazie a uno scambio di valore pluridirezionale e, se può sembrare ovvio quello che richiediamo (idee, creatività, forza, operatività, competenza, passione, tempo, energie ecc.), non è detto che sia altrettanto chiaro quello che, in queste relazioni sempre più esigenti, dovremmo proporre.
Le organizzazioni, fino a oggi, hanno affidato la propria parte del legame a modelli remunerativi e premianti che, sul piatto, presuppongono valori standard riconosciuti da tutti come tali, eventualmente modulati con quantificazioni individuali. Oggi non basta più il quanto (tanto o poco) si mette sul piatto, ma ciò che di significativo (argento o sale – metaforicamente parlando) ha l’altro da offrire.
Più l’azienda è strutturata, più è probabile che disponga di un modello di ingaggio chiaro, trasparente, logico, quantificato, fondato su scatti di grado e livelli. Storicamente tra salari (etimologia interessantissima!), premi, partecipazioni e benefit, le organizzazioni hanno offerto quello che, per loro, è il valore massimo, definito anche da un relativo statuto giuridico. E cioè denaro e opportunità di carriera, nel caso di società a scopo di lucro; possibilità di generare impatto nel rispettivo settore, per le organizzazioni no profit. O entrambe le cose, nelle più recenti società benefit. Oppure, ancora, potere, per le organizzazioni politiche o assimilabili. Insomma, se escludiamo i casi eccezionali in cui i rapporti di lavoro si intrecciano a relazioni personali, ogni organizzazione tenta di stabilire legami offrendo “tutto o solo quello che ha”, in relazione a ciò che è in grado di generare.
Quasi sempre, per ciascuna di queste realtà, si tratta un modello di scambio relazionale basato su un solo valore fondante che, declinato in diverse misure, viene proposto a tutti: il modello one for all. Cosa accade però quando, dall’altra parte, quelle leve dello scambio non sono più percepite come le più importanti? Semplice, il legame si indebolisce, o si spezza.
Il Covid-19 ci ha fatto aprire gli occhi sul fatto che, per molte persone, la possibilità di poter disporre del proprio tempo produttivo con più flessibilità può contare più di premi e aumenti di stipendio; che lavorare da casa può essere apprezzato più di un ufficio prestigioso e che la sensazione di benessere quando si lavora potrebbe pesare più del lavoro stesso che stiamo svolgendo. Bene, questi valori di scambio emergenti, che si sono rapidamente evoluti in nuove normalità, non sono appetibili per ogni collaboratore e non saranno eternamente validi. Recenti studi scientifici sul behavioural change dimostrano come i modelli rigidi basati sul one for all siano addirittura controproducenti per ingaggiare la maggioranza delle persone.
Basta forse sostituire gli aumenti di stipendio con due giorni di smart working a settimana? Barattare l’auto aziendale con bici elettriche per tutta la famiglia?
Non è affatto così, per due semplici motivi. Il primo: ciò che è un valore riconosciuto per una persona, potrebbe addirittura essere un elemento repulsivo per un’altra. Il secondo: un valore riconosciuto come importante per una persona o in un contesto sociale oggi potrebbe non esserlo stato in passato, e non lo sarà in futuro.
Qualunque sia il modello di scambio di valore che un’organizzazione vuole attivare, è una questione di personalizzazione one to one, per capire cosa è davvero importante per le persone in quel preciso momento del presente e in ogni successivo momento del futuro. E vale soprattutto quando si vuole stimolare l’ingresso e la permanenza del best of breed, cioè di quelle persone le cui unicità fanno e faranno sempre la differenza e sono – quindi – più ambite dal mercato.
Le organizzazioni devono oltrepassare un’idea di valore monodirezionale, unico e immutabile, percepito come tale da un generico “tutti”, e interpretato come un costo da sostenere per ottenere qualcosa, a un concetto di valore temporaneamente significativo da scambiare con le proprie persone. Devono, in sostanza, diventare una vera community in cui tutti i partecipanti generano e scambiano quel valore che è per loro rilevante in quel preciso momento della propria esistenza. Un modello di valore che va compreso, ricercato, co-generato e poi offerto come humus fertile per nutrire legami bilanciati, da qualunque direzione li si guardi. Capire, a livello individuale, quale sia il modello di scambio di valore vincente non è un gioco a somma zero. Richiede impegno, fatica e un cambio di mentalità sostanziale.
Cosa comporta, nella pratica, adottare un approccio one-to-one efficace per creare legami? Proviamo a capirlo con un esempio dal mondo dello showbusiness.
Agli inizi degli anni Settanta, qualche anno prima dell’uscita di “Guerre Stellari” per intenderci, il regista cileno Alejandro Jodorowsky intraprese una sfida artisticamente colossale: trasporre la saga letteraria di Dune in versione cinematografica. La complessità e la portata di questa impresa erano senza precedenti: dal punto di vista della disruption culturale avrebbe portato nuovi linguaggi, nuovi business, nuovi paradigmi (è lo stesso artista a fornircene una descrizione nel docufilm del 2013, Jodorowsky’s Dune). Jodorowsky, di fronte a un futuro da creare e a un’impresa in cui tutto era da inventare, prese da subito una decisione chiave: coinvolgere le migliori menti, e solo quelle più adatte al progetto, nella sua missione. Non i migliori professionisti per ciascun ruolo, ma le migliori menti.
Per riuscirvi, avrebbe dovuto, uno per uno, esplorare il modello di scambio di valore che li avrebbe attivati e mettere sul piatto la sola cosa che li avrebbe davvero portati a bordo mettendosi in gioco in profondità. E così fece.
Per la regia/fotografia, provò ad arruolare probabilmente il miglior fumettista dell’epoca: il francese Moebius, che avrebbe dovuto illustrare soggetti, realizzare personaggi, scenografie e dare indicazioni precise di fotografia e ripresa. Nessuna di queste attività facevano parte del suo bagaglio professionale, ma Jodorowsky scambiò con Moebius la cosa più preziosa di cui disponesse, una parte del suo sogno. Così Moebius divenne parte fondamentale e imprescindibile dell’opera, lanciandogli una sfida impossibile, che solo lui al mondo avrebbe potuto interpretare, garantendogli ampi margini di libertà co-creativa. Il legame stabilito durò per decenni e diede frutti artistici di riconosciuto valore (si parla di più di 3000 illustrazioni).
E poi, come convincere l’ingovernabile Salvador Dalí a interpretare un personaggio chiave come il governatore della Galassia? Mettendo sul piatto quello che lui veramente voleva, e non quello che apparentemente richiedeva. Dalí, come si apprende dalle stesse parole del regista, reclamava la possibilità di diventare l’attore più pagato di sempre per ogni ora di girato. Jodorowsky e la produzione, non potendo permettersi di sostenere quel tipo di spesa, colsero perfettamente il senso vero della richiesta e, prevedendo per lui una presenza finale sullo schermo di soli tre minuti, gli offrirono qualcosa di adeguato: la cifra più alta mai pagata al minuto. Poter urlare al mondo di essere “l’attore più pagato di sempre”, e non la cifra complessiva, era quanto voleva Dalí.
Ultimo caso: come trascinare nel cast, in un progetto così rischioso, l’iconico Orson Welles, sapendo che quel ruolo non avrebbe aggiunto alcunché alla sua carriera? Semplice, facendo leva sul cibo. Dopo un’attenta indagine condotta in prima persona, sul piatto (è proprio il caso di dirlo) dello scambio di valore, Jodorowsky promise a Welles che, sul set, ci sarebbe stato lo chef del suo ristorante francese preferito.
Leggendo questi esempi saranno sorti dubbi, certamente legittimi. Le nostre imprese giustificano il ricorso ai Moebius, Dalí e Orson Welles di turno o basta mooooooolto meno per affrontare le nuove sfide? Ci si può permettere di investire così tanto valore nell’ingaggio delle proprie persone? Il management, valutato su obiettivi di business, si dedicherà quanto è necessario a comprendere e sostenere lo scambio di valore per ogni collaboratore? Gli ingranaggi dei meccanismi HR e produttivi (o legali e sindacali) sono così complicati e stretti… possibile davvero rimetterci mano?
Dubbi legittimi, dicevamo. Come quelli sull’esistenza degli UFO. Ma se pensiamo che tutto questo sia solo fantascienza, allora lasciamola agli alieni.
Pubblicato su Weconomy 15 – UFO. Unidentified future organizations